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Geopolimeri: un’antica novità?

 Nota informativa per  i partecipanti ai corsi “CIVILTÀ PERDUTE E  MISTERIOSE”

 

Nei nostri incontri c’è stata l’occasione di parlare dei geopolimeri, una conquista della chimica contemporanea che permette la realizzazione di materiali sintetici “simil pietra”. Questi hanno caratteristiche decisamente migliori rispetto al classico cemento per edilizia; inoltre hanno un processo produttivo semplificato e impatto ambientale poco invasivo. In breve – mi scusino i tecnici della materia – si può asserire che i geopolimeri costituiscano la capacità di produrre pietra in modo artificiale e relativamente agevole. Il motivo per cui ne parlammo riguarda una teoria che ipotizza la loro conoscenza e il loro impiego nell’antichità. Il più noto fra i siti archeologici che ne proverebbe con maggior evidenza l’utilizzo è Puma Punku, situato sulle rive del lago Titicaca. Fra i celebri assertori di questa ipotesi vi è Joseph Davidovits, il più rinomato fra gli studiosi di chimica applicata ai geopolimeri, nonché sostenitore convinto del loro antico impiego a Puma Punku e nelle piramidi egiziane. Com’è facile immaginare, in passato, i sostenitori – Davidovits in primis – di un’antica conoscenza di questi materiali, sono stati bersaglio di critiche severe se non schernitrici. Ma da qualche tempo le cose sono cambiate.

Recentemente sono riuscito, sebbene con difficoltà, ad avere dialoghi con alcuni “addetti ai lavori”. Mi è stato spiegato come negli ultimi anni gli studi in tale settore siano avanzati speditamente e che l’impiego dei geopolimeri stia smettendo di essere un argomento relegato alla teoria o ai soli laboratori. Il loro uso, quindi, sarebbe sempre più una realtà concreta e destinato ad una infinità di applicazioni pratiche. Ciò risulta evidente osservando il proliferare, anche in Italia, di aziende all’avanguardia il cui ambito commerciale è legato ai geopolimeri.

Naturalmente non potevo esimermi dal domandare se si riteneva plausibile un impiego in epoca antica di questi materiali. Con sorpresa, la risposta è pervenuta senza esitazione. A parere delle persone con cui ho parlato, non c’è nulla di strano nell’ipotizzare l’utilizzo in epoca remota dei geopolimeri, in quanto le materie prime necessarie non sono molto difficili da reperire in natura e, inoltre, il processo produttivo appare relativamente semplice. Di certo gli sforzi odierni sono rivolti ad ottenere prodotti dalle caratteristiche raffinate e con precise peculiarità chimico-fisiche e meccaniche, ma nulla esclude che anche in passato qualche civiltà possa aver ottenuto risultati sorprendenti. A questo punto, ho accennato a Puma Punku. Evidentemente era un argomento già esplorato dai miei interlocutori poiché, senza esitazione, mi è stato spiegato che in effetti le famose pietre di questo luogo avrebbero in comune con i geopolimeri non solo le intime caratteristiche chimiche ma anche quelle morfologiche, come ad esempio la presenza di micro-bolle d’aria, che hanno un ruolo chiave nel processo chimico di indurimento.

Mi sembra di poter concludere che si è trattato di un dialogo con professionisti dallo sguardo rivolto al futuro ma, nel contempo, ben disponibili ad accettare un passato inatteso e sbalorditivo. Così, se la voce di coloro che deridevano il Prof. Davidovits per la sua teoria sugli “antichi geopolimeri” si affievolisce sempre più, si alza e si accentua la voce di chi considera concreta la possibilità che in tempi lontani siano esistite una o più culture in grado di realizzare questi straordinari materiali.

Curiosi e interessati, rimaniamo in attesa dell’evolversi degli studi…

 

Valerio Davide Franchi

(Docente del corso “Civiltà perdute e misteriose”)